mercoledì 6 dicembre 2017

I perché no dello spostamento dell'ambasciata Usa a Gerusalemme


Donald Trump con un'unica dichiarazione rischia di mandare in fumo anni di lavoro per cercare di portare la pace in una regione, quella della Palestina, da anni martoriata da guerre, vessazioni e limitazioni delle libertà.



Perché è così importante e divisiva la decisione di Trump di spostare la sede dell'ambasciata diplomatica da Tel Aviv a Gerusalemme?
Perché Gerusalemme è un simbolo, è la città in cui coesistone le tre religioni monoteiste più diffuse ed è il pomo della discordia tra palestinesi e israeliani.

Spostare la sede dell'ambasciata americana in Israele a Gerusalemme, significa riconoscere l'unità storica di Israele con Gerusalemme come sua capitale, in barba a tutti i soprusi subiti dai palestinesi in questi anni dopo il colpo di mano di Israele. Significa mandare in frantumi ciò che è stato fatto per i diritti dei palestinesi. Significa lasciare ancora di più ai margini la lotta palestinese per l'esistenza. Significa riconoscere l'atto di forza che Israele ha compiuto con le occupazioni nell'area palestinese. Significa affossare la possibilità dell'esistenza di uno Stato palestinese.


Inoltre questa decisione rende ancora più forte l'ala oltranzista che fa capo a Benjamin Netanyahu, oltre che l'ala sionista, indebolendo così i moderati e la stessa democrazia in Israele. Con questa decisione si accenderà la miccia per nuovi scontri e si apre la strada per una nuova intifada e l'intera area mediorientale subirà un ulteriore scossone.

Se Trump voleva dare uno scossone al mondo con la sua presidenza ci sta riuscendo nel modo più negativo possibile, il problema è che neanche lui si rende conto delle conseguenze dei suoi atti irresponsabili.

sabato 2 dicembre 2017

Napoli- Juventus: vince il pragmatismo di Allegri in una serie A che di meglio oggi non riesce a produrre.

Higuain riesce a ottenere la sua vendetta con il goal decisivo, anche se l'atteggiamento di polemica è ormai diventato stucchevole. Nello scontro Sarri - Allegri il secondo vince perché riesce meglio ad adattarsi alle diverse situazioni. Nulla è però deciso.


Momento di stanca degli azzurri?

Napoli Juventus ha dimostrato i pregi e i limiti di entrambe le squadre. La più bella squadra d'Italia e tra le prime tre d'Europa, per gioco, sta passando un periodo difficile in termini di spettacolo, perché già nelle settimane precedenti, gli azzurri avevano dimostrato di avere uno stato di forma non eccelso e di non riuscire più a essere dinamici e mobili come prima, caratteristica che rende il calcio sarriano bello e imprevedibile. Il Napoli se non è al massimo della forma diventa meno pericoloso, perché per giocare quel calcio bello e intenso che vuole Sarri devi stare bene fisicamente. Contro la Juventus gli azzurri sono stati più lenti, sia nei passaggi che nei movimenti, grazie anche alla tattica attendista di Allegri, che è riuscito a imbrigliarne il gioco, e per una certa stanchezza da parte dei maggiori esponenti di spicco della squadra partenopea. Nella settimane scorse, quando si chiedeva conto a Sarri di questo calo di forma, il mister controbatteva che i dati della corsa dimostravano che lo stato fisicodei giocatori non era così male, in realtà è evidente come il Napoli corra peggio rispetto a prima, e il possesso palla sia meno dinamico e pericoloso.  I limiti bisogna forse ricercarli in una preparazione iniziata troppo presto per il preliminare, in una rosa corta che limita le alternative in ruoli cardine per la squadra come le ali di attacco e di difesa e una certa chiusura tattica da parte di Sarri che non vede altro modo di giocare al di fuori del suo, indipendentemente dalla forma e dai giocatori a disposizione. 

giovedì 16 novembre 2017

Sentenza licenziamenti Almaviva Roma.: "153 lavoratori devono essere reintegrati"


La condanna al reintegro dei licenziati, apre un nuovo fronte per Almaviva contact che ha già annunciato ricorso contro la sentenza.



Grande riconoscimento per 153 dei 1666 ex lavoratori Almaviva Roma licenziati il 22 dicembre. Il giudice del lavoro di Roma Umberto Buonassisi ha condannato la società a reintegrare gli stessi lavoratori e a corrispondere loro, a titolo di risarcimento danni un'indennità, comprensiva degli interessi, pari agli stipendi maturati dal giorno del licenziamento fino alla reintegra. La decisione riguarda 153 lavoratori che avevano fatto ricorso, mentre per il 15 dicembre è attesa un'altra decisione che riguarda una novantina di persone.

LEGGI ANCHE: Dividi e impera e vinci due volte: Almaviva verso il licenziamento di 1666 persone a Roma e rimanda a marzo quelli di Napoli


Un grande traguardo ottenuto dai lavoratori romani che dopo i licenziamenti di fine del 2016, che avevano complessivamente lasciato a casa 1.666 persone nello stabilimento di Roma. Il provvedimento può dirsi storico perché il giudice riconosce che nella procedura di licenziamento messa in atto "si risolve in una vera e propria illegittima discriminazione: chi non accetta di vedersi abbattere la retribuzione (a parità di orario e di mansioni) e lo stesso tfr, in spregio alle norme del codice civile e costituzionali ancora vigenti, viene licenziato e chi accetta viene invece salvato. Un messaggio davvero inquietante anche per il futuro che si traduce comunque in una condotta illegittima perché attribuisce valore decisivo ai fini della scelta dei lavoratori da licenziare, pur se tramite lo schermo dell'accordo sindacale, ad un fattore (il maggiore costo del personale di una certa sede rispetto ad altre) che per legge è invece del tutto irrilevante a questo fine."

La lotta per i diritti dei lavoratori sembra essere tornata di moda dopo le numerose misure da parte del governo nel voler svilire lavoro e diritti oltre ad azzerare qualsiasi potere contrattuale. D'altronde era chiaro dal comportamento del governo, sin da dopo i licenziamenti Almaviva, quando l'esecutivo si era limitato ad assecondare i piani della società e a investire circa 8 milioni di euro per cercare di ricollocare tutti i lavoratori Piano fino a ora non proprio riuscito, visto che l'Anpal non è riuscito a ricollocare ancora nessuno. 

Almaviva Contact ha replicato all'ordinanza del giudice annunciando che "mantenendo ferma la convinzione del proprio corretto operato, darà ovviamente attuazione all'ordinanza, riammettendo i lavoratori presso le sedi disponibili, tenendo conto che il sito operativo di Roma è chiuso, ma la impugnerà immediatamente, al fine di revocarne gli effetti in tempi brevi". 
La battaglia dei lavoratori romani non è ancora terminata quindi. Almaviva ha incassato il colpo, un altro dopo quello relativo al ritiro dei trasferimenti di 53 lavoratori della sede di Milano a Rende perché non era stata rinnovata una commessa, ma ha già annunciato battaglia. La sorte dei 153 e degli altri non è ancora segnata.
Ci si aspetta che questa sentenza possa dare seguito alla lotta dei lavoratori per difendere i diritti e far ritornare proprio quel tema sul tavolo del confronto per fare in modo che non siano sempre solo i lavoratori a pagare lo scotto più duro, soprattutto con il Jobs act. 
Ma l'Italia si sa è sempre il Paese degli imprenditori bravi a fare impresa solo fin quando ci sono gli aiuti di stato.

In bocca al lupo ai lavoratori romani.

sabato 28 ottobre 2017

Il limite dell'autodeterminazione dei popoli nell'aspirazione indipendentista catalana

In queste giorni è tornato di grande attualità il tema del principio di autodeterminazione dei popoli con le dichiarazioni di indipendenza da parte della Catalogna e del Kurdistan, velocemente annullate dalle autorità centrali. Entrambi i contesti sono comunque ancora in divenire e tanti sono i timori della comunità internazionale.


Nel caso del Kurdistan le autorità di Baghdad sono intervenute con l'esercito per rioccupare Kirkuk e i centri economicamente più importanti dell'area, anche se non sono ancora chiari i risvolti futuri della situazione. In ogni caso per la questione curda è sempre alto il rischio di uno scontro armato tra le parti, rappresentando uno dei temi centrali caratterizzanti l'instabilità mediorientale. Il caso della Catalogna è invece decisamente diverso: fino a ora lo scontro è stato soprattutto verbale (eccetto le violenze perpetrate dalle forze di polizia il giorno del referendum illegale nei confronti della popolazione che voleva votare). Anche qui la situazione procede in un modo altamente confusionario, con Presidente e governo della Generalitat, che hanno approvato la dichiarazione indipendenza della Catalogna, autoproclamatasi Repubblica catalana, dopo un lungo conciliabolo.

Sia in Kurdistan che in Catalogna, comunque, sono subito esplose grandi manifestazioni di gioia dentro e fuori le assemblee. Manifestazioni poi trasformatesi in rabbia visto l'intervento delle autorità centrali.

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La questione spagnola

In Spagna, il Senato spagnolo ha prontamente risposto con il via libera all'articolo 155, e l'affidamento dell'incarico a Mariano Rajoy di commissariare la Generalitat catalana e azzerare l’autonomia della regione.


sabato 21 ottobre 2017

Che sta accadendo in Myanmar ai Rohingya?

Continuano le persecuzioni in Myanmar nei confronti della minoranza etnica musulmana Rohingya con oltre mezzo milione di persone in fuga. 

Dei Rohingya avevo già parlato un po’ di tempo fa, quando la persecuzione da parte delle autorità militari birmane aveva provocato la diaspora di quelli che sono spesso descritti come "la minoranza più perseguitata del mondo". Viste le poche attenzioni che l’opinione pubblica in questi anni riesce a dedicare a questo popolo, vediamo di spiegare chi sia questa popolazione in fuga. 



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I Rohingya sono un gruppo etnico, la maggioranza dei quali musulmani, vissuto per secoli nel Myanmar, Stato a maggioranza buddista. Oltre che per la religione, si distinguono per il dialetto parlato, il Rohingya o Ruaingga. Quasi tutti i Rohingya del Myanmar vivono nello stato di Rakhine, uno degli stati più poveri del Paese, in cui è forte la mancanza di servizi di base. Attualmente, ci sono circa 1,1 milioni di Rohingya che vivono nel paese del sud-est asiatico, la loro condizione non è riconosciuta visto che non sono considerati uno dei 135 gruppi etnici ufficiali del paese, oltre all'essersi visti negati dal 1982 anche la cittadinanza del Myanmar. Sono quindi sostanzialmente apolidi e non possono lasciare il Paese senza permesso del governo.  

Eppure i Rohingya abitano la regione del Myanmar da secoli. Infatti, secondo molti storici e gruppi di Rohingya,. i musulmani hanno vissuto nella zona ora conosciuta come Myanmar sin dal 12 ° secolo. 

Le loro condizioni sono comunque tanto difficili, a causa di uno stato di persistente violenza e persecuzione, che centinaia di migliaia sono fuggiti nei paesi limitrofi sia via terra, sia attraverso il mare nel corso di decenni.


I perché delle persecuzioni



Poco dopo l'indipendenza di Myanmar dagli inglesi nel 1948, è stata approvata la Legge sulla cittadinanza dell'Unione, definendo quali etnie potessero ottenere la cittadinanza da cui furono esclusi i Rohingya, anche se, fu permesso a coloro i cui familiari avevano vissuto in Myanmar per almeno due generazioni di richiedere il documento d'identità. Fu riconosciuta l’identificazione di Rohingya e alcuni di loro poterono lavorare anche in parlamento. La situazione cambiò dopo il colpo di stato militare del 1962, quando fu stabilito l’obbligo per tutti i cittadini di di registrarsi presso i registri nazionali, mentre i Rohingya venivano considerati stranieri, status che limitava l’accesso ai posti di lavoro e alle opportunità educative.
Con la legge sulla cittadinanza del 1982 la situazione peggiorò ancora di più con il mancato riconoscimento di status per i Rohingya, che per legge furono esclusi dal riconoscimento tra i 135 gruppi etnici del paese. Come conseguenza della legge, ci fu la limitazione dei loro diritti a studiare, lavorare, viaggiare, sposarsi, praticare la propria religione e accedere ai servizi sanitari. 

lunedì 16 ottobre 2017

La Catalogna alle prese con l'indipendenza più breve di sempre e appare sempre più probabile il ricorso di Madrid all'articolo 155

La risposta di Pugdemont all'ultimatum di Rajoy è sostanzialmente una non risposta che si risolve in un contro ultimatum che appare irricevibile. sempre più probabile l'articolo 155 che pone grandi interrogativi sul futuro dell'indipendenza Catalana



La dichiarazione di indipendenza più breve della storia. Un’indipendenza di pochi minuti che ha illuso il popolo catalano, o almeno quelli desiderosi dell'indipendenza, che una svolta storica stesse avvenendo.In realtà la situazione è tanto più incerta e confusa che mai, dopo dichiarazioni incerte conseguenza di un referendum farlocco, se con il termine si vuole intendere che quel referendum non avesse alcun valore, come di poco valore è stata la campagna mediatica strumentalizzata e dichiarazioni  che hanno fatto più danni che altro. La conseguenza è essere arrivati allo scontro.
Dalle ultime indiscrezioni fornite da El Confidencial, il presidente regionale Carles Puigdemont nelle prossime non chiarirà la questione posta da Rajoy in merito all'aver o meno dichiarato l'indipendenza, ma anzi, porrà una sorta di "controultimatum" di due mesi al primo ministro spagnolo, in cui sempre secondo le fonti di El Confidencial vorrebbe chiedere un confronto da pari a pari con Madrid per la risoluzione del conflitto aggiungendo come condizioni essenziali il ritiro degli oltre 12.000 agenti delle forze speciali, oltre alla sospensione delle accuse mosse nei confronti del capo dei Mossos d'Esquadra Josep Lluís Trapero. Richieste che appaiono ai più improponibili.


sabato 14 ottobre 2017

Rosatellum bis: ma la legge elettorale è davvero così importante?


Tra chi evoca modi da regime e chi denuncia il solito inciucio, non sarà una nuova legge elettorale a cambiare le sorti dell'Italia


Ci risiamo, elezioni alle porte, governo “nuovo” (si fa per dire), legge elettorale nuova. Se l’anno scorso, il 2016, era stato monopolizzato dalle polemiche sull’Italicum e da tutti i bei cambiamenti che avrebbe portato, modifica della Costituzione compresa, con la riforma costituzionale poi affossata nel referendum del 4 dicembre, nel 2017 abbiamo il Rosatellum, che porta il nome di Ettore Rosato, capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei deputati. La nuova legge, nella versione modificata dopo le polemiche nel corso di questi mesi, è stata approvata alla Camera con anche il voto di fiducia e nei prossimi giorni passerà al vaglio del Senato per poi diventare legge.

Tante polemiche, urla e accuse di "fascistellum", come al solito si tira fuori l'improprio paragone con il regime fascista.

Siamo un Paese da legge elettorale


La polemica sulla legge elettorale è una delle questioni che più appassiona e infervora il dibattito politico italiano. Sono anni che le maggioranze liquide che costellano la storia parlamentare italiana, si colpiscono a suon di leggi elettorali. La questione è comunque diventata ancor più spinosa negli ultimi decenni, anche perché se dalla caduta del regime fascista e dalla nascita della Repubblica Italiana, nel 1946, fino al 1993 lo svolgimento delle elezioni politiche italiane era stato regolato da una legge proporzionale classica (con modifiche apportate nel corso del tempo), dalla fine della prima Repubblica in poi, si è avuto un dibattito costante e continuo su leggi elettorali cambiate e da cambiare. In 150 anni di storia unitaria si sono avute 12 formule elettorali diverse, tre solo negli ultimi quindici anni con le leggi elettorali Mattarellum, la Calderoli, e l’Italicum poi cancellato con il referendum, a breve si avrà una quarta legge. Bisogna alquanto sottolineare come una legge che rappresenta una questione tecnica consistente nella formula elettorale che serve a il meccanismo di traduzione dei voti in seggi, sia una questione senza soluzione. 

Cerchiamo di chiarire un concetto:
Non è la legge elettorale a rendere un sistema disfunzionale o fallimentare, ma è la classe dirigente e l'opinione pubblica a renderlo tale.
Vediamo perché.

lunedì 13 marzo 2017

Un calcio al veleno tra polemiche e faziosità

Lo chiamano ancora sport. Alcuni trattano, parlano e si appassionano di calcio ancora come se fosse un semplice sport. Quando c'è da polemizzare, in tanti ci tengono a mostrare la loro calma e la loro capacità di giudizio superpartes sottolineando che si tratta solo di uno sport e come tale dev'essere giudicato, senza quella dose di veleno, stress, rabbia e pressione che muove tanti tifosi, appassionati che si infervorano e si accendono ogni volta che la propria squadra del cuore scende in campo.



In realtà, bisognerebbe sottolineare che nel momento in cui entra in campo il professionismo lo sport perde il proprio carattere propriamente ludico per diventare business, competizione e agonismo. Niente in relazione ai valori dello sport, come lealtà, benessere e salute.Si noterà la banalità di questa affermazione, ma in realtà bisogna specificare innanzitutto questo, quando si parla di sport professionistico in qualsiasi contesto, che sia calcio, basket, ciclismo, nuoto, pallavolo e altro.

Ciò che riesce a muovere lo sport professionistico e nello specifico il calcio è la grande passione di milioni di persone che ogni giorno monopolizzano i loro pensieri parlando, pensando, ossessionando tutto il loro tempo sul calcio. Per il tifo alla propria squadra del cuore o per semplice passione ludica, o per più veniale questione di soldi con le scommesse.

Il calcio è capace come nessun altro argomento di muovere passioni, cuori e persone che si infervorano e quasi pronti a fare "rivoluzioni" per una partita di pallone più che per qualsiasi sopruso subito.
Chi scrive è da sempre un appassionato di calcio e di sport in generale, ma incapace ormai di essere fan o tifoso. Un tempo ero tifoso del Parma, dopo le brutte vicende, mi sono disinnamorato, ma la mia indole razionale ha fatto sì che fosse ormai difficile essere un fan.In sostanza, non comprendo come un giornalista possa essere tifoso di una parte e continuare a fare il proprio lavoro con credibilità e autorevolezza, perché nel momento in cui si è persa ufficialmente l'equidistanza tra le parti, la capacità di giudizio è compromessa. Tutto quel che si dice o si scrive è condizionato dal tifo. I giornalisti tifosi sono un parte del problema, perché contribuiscono ad accendere gli animi e a infervorare le folle per un tornaconto che può essere di testata o personale. Questo non è giornalismo almeno dal punto di vista della deontologia.