giovedì 22 dicembre 2016

Dividi e impera e vinci due volte: Almaviva verso il licenziamento di 1666 persone a Roma e rimanda a marzo quelli di Napoli

Nella notte la conclusione della vertenza Almaviva con la divisione imprevista del fronte sindacale che porta alla conferma dei licenziamenti romani con 1666 lavoratori in Naspi, mentre Napoli rimanda tutto a marzo.

Nelle strategie di guerra si dice che il primo obiettivo è quello di dividere il fronte nemico, perché un nemico unito è più duro da battere, se diviso, invece, diventa più vulnerabile. 

Nella vertenza Almaviva si è concretizzata questa situazione.

Di fronte alla proposta governativa di congelare i licenziamenti fino a marzo, con la volontà di trattare con l'azienda per la riduzione del costo del lavoro e controllo individuale, i rappresentanti sindacali di Roma hanno deciso per il no alla firma, mentre le rappresentanze di Napoli hanno firmato per salvaguardare l'occupazione e prendere tempo fino a  marzo. Di conseguenza è confermata la chiusura del sito di Roma con 1600 lavoratori in Naspi, mentre sono congelati i licenziamenti a Napoli, rimandati a marzo senza un eventuale accordo tra le parti.



Un notte durata tre giorni e una trattativa andata avanti per settimane, senza sosta e senza possibilità di avvicinare le parti. Con l'azienda Almaviva ferma inamovibile sulle motivazioni che l'hanno portata ad aprire la procedura di licenziamenti nei territori di Napoli e Roma; con i sindacati anche loro fermi nel non voler trattare su possibilità di riduzione dei livelli salariali dei lavoratori e di opzioni sul controllo individuale in deroga al contratto nazionale. Tra le due parti, il governo con la vice ministro Teresa Bellanova che oltre ad ammortizzatori sociali e a rimandi, in sostanza non aveva proposte concrete per dirimere la problematica; se non rivendicare un azione di governo fin troppo inefficace per contrastare la crisi di settore.

Una situazione bloccata e paradossale nel cui mezzo c'è il destino dei lavoratori, 2560 lavoratori arrivati allo stremo, con la speranza che la notte del 21 dicembre fosse l'ultima notte prima dell'esito definitivo, quello che nel bene e nel male doveva stabilire il futuro di ogni singola persona.
In realtà ha vinto la politica ed è passata la linea della vice ministro  di prendere tempo e rinviare, come già aveva fatto a maggio.

Cosa prevede l'accordo?


Per ora documenti ufficiali non ce ne sono, ma da quello che voci attendibili dicono, si è accettato di congelare i licenziamenti fino a marzo e di avviare poi un tavolo di trattativa dal 30 marzo, al 7 aprile per trovare un accordo sui punti inseriti e richiesti dall'azienda: riduzione del costo del lavoro e controllo a distanza. Durante questo periodo oltre alle verifiche istituzionali, in concertazione con le parti sociali e l'azienda, dal 31 dicembre partirà la cassa integrazione per i lavoratori di Napoli che sarà a zero ore per il mese di gennaio, al 70% per il mese di febbraio e al 50% per il mese di marzo. Ad aprile se si troverà un accordo o se la situazione sarà cambiata si ripartirà con il lavoro, altrimenti automaticamente ci saranno i licenziamenti.

mercoledì 7 dicembre 2016

La caduta degli "dei", quando il senso di onnipotenza ti stacca dalla realtà


Giorni dopo gli esaltanti risultati del referendum, ci sono ancora tanti che in rete o per strada piangono lacrime di dolore sulle spoglie del governo Renzi. Quando il senso di onnipotenza ti scava il baratro senza che nemmeno ci si accorga.





Lacrime sulla riforma, lacrime sull'unico governo realistico per l'Italia, l'unico che i numerosi fini politologi vedono per evitare la calata dei barbari: i vari Salvini, Brunetta, grillini e Berlusconi. Questo soprattutto dopo le immagini di giubilo e di esultanza da vittoria del referendum, lacrime affiancate all'indignazione per i tanti che hanno votato no.

"Perché bastava un sì per cambiare, perché Renzi ci ha provato, ma la riforma costituzionale (la migliore di sempre) nessuno l'ha capita. Perché era l'occasione per poter cambiare e nel momento che finalmente si poteva, un no ignorante (nel senso che la maggioranza dei votanti ignorava realmente il merito della riforma) ha bloccato tutto. Bloccato tutto per un odio personale nei confronti di Renzi, un odio nei confronti del Governo grazie alla strumentalizzazione dei partiti che hanno caldeggiato la bocciatura della riforma e i veri poteri forti che hanno contrastato il Governo. Perché, sempre secondo i delusi renziani, i veri poteri forti erano con il no, altrimenti non sarebbe passata la riforma."

In buona sostanza è questo che leggo, che sento, in molti discorsi di politici dell'ultima ora, rimasti delusi dall'esito referendario.
Non mi dilungo sul perché era importante il no, in quanto l'ho già scritto su questo blog e un altro post uguale sarebbe inutile.

LEGGI ANCHE: Riforma costituzionale, tanta disinformazione tra chi dice sì e chi dice no, a pagare è la Costituzione


giovedì 1 dicembre 2016

Riforma costituzionale, tanta disinformazione tra chi dice sì e chi dice no, a pagare è la Costituzione


Mancano pochi interminabili giorni alla fine di una campagna elettorale tra le peggiori che l'Italia abbia mai dovuto sopportare. Questa battaglia referendaria è stata molto peggio delle ultime campagne elettorali.





Si è dovuti sopportare presenze continue in tutti i mezzi informativi, bombardamenti mediatici di livello tanto basso quanto quello della discussione sul tema.

Abbiamo ascoltato tante bassezze sia dal punto di vista logico, che argomentativo. Tante discese in campo di chi si schiera con il sì e chi si schiera con il no. Nessuno che entra nel merito della riforma costituzionale.Semplicemente perché c'è voglia di cambiare, indipendentemente se quel cambiamento sia positivo o negativo. Non ultimo Romano Prodi che ha dichiarato il suo voto per il sì, pur non nutrendo pensieri positivi sulla riforma (?!). Una campagna elettorale dispendiosa dal punto di vista economico, sociale.

Perché una riforma appartenente solo a un Partito, il Pd e trattata sia a livello mediatico che in campagna elettorale, come una questione di partito non può che dividere e spaccare il Paese. E se una legge o una riforma ordinaria può comunque essere sanata, quella costituzionale intacca profondamente gli equilibri e apre una frattura che può essere insanabile.

Tra pochi giorni sarà finalmente finita e saremo a raccogliere i cocci di quello che rimane del Paese, e della sua credibilità, indipendentemente dal risultato.

Vi anticipo una cosa importante: il bombardamento mediatico che c'è intorno al voto referendario è più utile ai politici che hanno proposto tale cambiamento che altro. Il sì serve a Renzi per affermare totalmente la propria leadership, rafforzare il proprio potere ed entrare di diritto nella storia d'Italia. Il No è un miscuglio di posizioni più o meno variegate, alcune non c'entrano nulla con il merito della riforma, altre sono per un semplice no al governo. C'è chi difende la costituzione e chi la propria posizione. Tante facce della stessa medaglia.

sabato 26 novembre 2016

Fidel Castro l'uomo simbolo da "quando nel '68 sognavamo Cuba"

Compañeros Fidel ha muerto


Dopo tante false notizie, doveva accadere e questa volta è tutto vero, l'ultimo dittatore del '900 che ha influenzato fortemente la storia occidentale, se n'è andato.





Fidel Castro è morto. Voglio subito specificare che non sarà un post agiografico, ma solo sincero per tutto quello che questa figura ha suscitato nella mia formazione politica e personale. Senza nascondere niente, Fidel è stato un uomo autoritario, un dittatore accentratore che ha dominato la storia dell'isola caraibica per oltre 50 anni, in maniera autoritaria e anche sanguinaria. Eliminando il dissenso e qualsiasi opinione alternativa, questo non bisogna dimenticarlo, ogni volta che qualcuno vuole farne un santo laico delle libertà civili.
Ma, per onestà, è stato anche molto più di questo. Una figura così complessa, sarà studiata approfonditamente dagli storici, perché ha rappresentato in pieno l'ideale di rivolta di una generazione, o almeno nei primi decenni della rivoluzione. Un'icona non solo per chi ha vissuto direttamente quegli anni, ma anche per le generazioni successive . Perché? mi chiederete, visto che sono troppo giovane per aver visto nascere la vera utopia cubana. In realtà il titolo di questo post cita un libro che mi ha folgorato in adolescenza e ha aiutato a crescere i sogni rivoluzionari di un giovane studente. Perché Cuba è Cuba, nonostante gli Usa e l'autoritarismo castrista, nonostante avesse terminato di rappresentare un laboratorio alternativo di governo, era per molti una speranza. Perché Cuba e i cubani, anche nella povertà dei decenni attuali, sono un modo di vivere diverso, più vero, lontano dalle mille sovrastrutture. Chi è stato a Cuba lo sa e continua a dirlo.

Quell'utopia castrista è fallita, ma la rivoluzione ha comunque lasciato un'eredità forte nel modo di vivere e di intendere la vita dei cubani. E qui c'è tanto di Fidel Castro...

Può sembrare un'utopia. Bene, il nostro compito è dimostrare che non lo sia

venerdì 25 novembre 2016

Dove eravamo rimasti


Quando manchi da tanto in casa ritrovi un po' di disordine. In effetti i questi giorni tre mesi che mi separano dall'ultimo post, di acqua ne è passata sotto i ponti e anche di articoli e scritti. Perché non ci si ferma mai, nonostante tutto.

Aggiorniamo un po' il passato e iniziamo a scrivere del futuro.

Cercherò di essere più frequente negli aggiornamenti e sappiate che potete trovarmi anche su Fix On Magazine.



Intanto di cose ne sono accadute in questi mesi oltre la succitata rivista. In questo periodo ho conosciuto e sposato la passione del running, ho scritto di Almaviva su Contrordine e raccontato storie su FixOn Magazine.

È ora di riprendere anche Anarcolessia, ed è  ora di rimettermi a lavoro perché c'è tanto di cui scrivere...


Restate collegati.


venerdì 2 settembre 2016

#CharlieHebdo, quando la satira indica la luna l'indignato guarda il dito

Charlie Hebdo ritorna alle cronache con le sue vignette, dopo i terribili attentati di gennaio 2015. Questa volta obiettivo della satira della rivista francese è l'Italia e il terremoto che ha colpito nell'epicentro tra i comuni di Accumoli, Amatrice (provincia di Rieti) e Arquata del Tronto (provincia di Ascoli Piceno).

Come poteva essere prevedibile le vignette hanno scatenato l'ira e le accuse di vergogna e indecenza sui social network, con i tanti "Vorrei sapere dove sono e cosa dicono i tanti Je suis Charlie di un anno fa...?" Riportando quasi come per dato la connessione col fatto che un po' i vignettisti il dramma degli attentatori se lo sono un po' cercato e che chi pubblica queste indecenze di sicuro non è eroe e soprattutto questa non è satira perché non fa ridere nessuno.

Dopo un anno e mezzo si riparla di satira e di vignette e l'indignazione questa volta è tutta italiana, con l'ambasciata francese che tiene a sottolineare che Charlie Hebdo non rappresenta la Francia e che quelle vignette non sono condivise.

Leggi anche: Essere Charlie Hebdo, Ahmed e gli altri ostaggi


Prima di analizzare le vignette incriminate, cerchiamo ancora una volta di fissare e chiarire il significato di satira, perché in tanti si sono accesi a specificare che queste vignette non sono satira e che non fanno ridere.
Siccome la definizione di satira non è semplice da specificare, perché la satira in sé non si inserisce in un confine preciso prendo in prestito le parole di un maestro della satira italiana, Daniele Luttazzi, che nel 2006 definì così l'arte satirica.

La satira, per definizione, è contro il potere. Contro ogni potere. E’ una combinazione di ribellione e irriverenza e mancanza di rispetto per l’autorità. (…) La satira è esercizio di libertà. (…) La satira dev’essere contro ogni potere. Anche contro il potere della satira.
La satira è...
può essere divertente, può essere volgare, può essere ironica, può essere fascista, può essere tante cose. Il limite è il gusto di chi fa satira.
Può piacere o non piacere, può essere più difficile e non essere tanto semplice da cogliere, si può ignorare o attaccare.
La storia dei satiri e della satira conosce tante repressioni e tanti attacchi.

La satira non è per tutti e può essere suscettibile di strumentalizzazioni, l'importante sarebbe coglierle per evitare di diventare uno strumentocapace usarci.


Detto questo, terminiamo il sermone istruttivo sugli argomenti e prendiamo in considerazione le vignette, anzi la vignetta incriminata di Charlie Hebdo che tutti i tg stanno spiattellando tra i titoli e che tanti, moralizzatori della prima, seconda e terza ora stanno attaccando indignati.
 

 
Con tanto di frase "Circa 300 morti in un terremoto in Italia. Ancora non si sa che il sisma abbia gridato 'Allah akbar' prima di tremare".

giovedì 1 settembre 2016

#FertilityDay una cosa inutile di cui potevamo fare a meno.

La forte crisi demografica richiede che il bisogno di nuove nascite possa incrementare la popolazione giovane che in futuro potrà pagare le pensioni ai più vecchi, le tasse e il debito pubblico che continua a essere un fardello per questo Paese.

Il Ministero della salute ormai lo saprete tutti ha deciso così di sensibilizzare le donne a non perdere il treno della fertilità, lanciando il tristemente noto #FertilityDay il 22 settembre.
Quello che molti commentatori hanno definito come un imbarazzante passo falso e che in sostanza è qualcosa di più.

Per poter trovare una definizione adeguata del fertility day, si può citare una esilarante scena di Paolo Villaggio in "Il primo tragico Fantozzi" che definiva (ingiustamente) il film "La corazzata Potemkin".

La campagna del ministro della salute Beatrice Lorenzin il 22 settembre, prevede una giornata in cui saranno previsti eventi tutti finanziati da soldi pubblici per offrire alle persone informazioni sulla pianificazione familiare e incoraggiare la genitorialità.

mercoledì 24 agosto 2016

E se il problema fossero le elezioni?

L'ennesimo bivio dell'Europa, mentre Renzi, Merkel e Hollande si incontrano sull'isola di Ventotene a suon di belle parole sul futuro dell'Ue, omaggiando Altiero Spinelli e gli uomini di Ventotene, ma dimenticandone in toto il loro insegnamento. Il premio nobel per l'economia Stiglitz afferma che il prossimo referendum italiano, quello di ottobre sulla riforma costituzionale voluta dal Governo Renzi, potrà essere la prossima scossa tellurica sulla stabilità dell'Unione.



Ma cosa resta ancora dell'Europa vista la fiducia che si nutre ancora su questo progetto.


Che significa ancora Europa?

Da quando è nato il progetto europeo e soprattutto da quando si è affermato l'Euro, l'integrazione europea è stata sempre di più relegata a questione di bilanci, a guerra di posizioni tra i Paesi e a salvataggi bancari. L'economia prima di tutto, prima di qualsiasi concezione e principio inerente alla cittadinanza e al costruire i cittadini. L'egoismo degli stati nazionali ritorna sempre.
Se un tempo il progetto era quello di costruire gli italiani, oggi il progetto dovrebbe essere quello di costruire gli europei, ma ormai sembra soltanto un insieme di belle parole di poco conto.

Cittadini

Dopo il referendum sulla Brexit, i numerosi attentati e le difficoltà sempre presenti per la questione dei rifugiati e dell'immigrazione hanno portato ai minimi termini i livelli del sentire europeo e in tutte le forme nazionaliste dell'antipolitica. Non si pensa a costruire un cittadino europeo, ma solo un contribuente, un consumatore, un cliente, mentre tutti gli ideali annegano in un mare di misure che non mirano a nulla ecccetto i bilanci e a tenere a freno il debito che tanto sta a cuore alla Germania.


sabato 13 agosto 2016

Serie A, storia di un progetto mancato nel declino del Milan e di Berlusconi

Se Anarcolessia è una finestra sul mondo che mi circonda, da questa finestra non può non mostrarsi lo sport. Ti accorgi a un certo punto che non c'è nemmeno un post che tratti di sport. Quindi di tanto in tanto inizierò a scriverne, chi legge si abitui.



Sin da piccolo ho nella mente con grande divertimento il calcio d'estate, praticamente uno sport a parte, in cui un po' tutti ci nutrivamo di illusioni grazie ad amichevoli estive dell'importanza del piffero, alle chiacchiere di mercato e al sogno che bene o male tutti erano campioni in estate. Questo è stato il bene o il male di essere cresciuti negli anni novanta, il periodo d'oro della Serie A e del calcio italiano e forse l'inizio della fine. Ricordo gli anni di vacche grasse quando i club italiani erano dominatori di coppe e il campionato se lo giocavano le cosiddette "sette sorelle". Sogni, illusioni, castelli di carta, un po' come quelle ricchezze su cui si appoggiavano quelle squadre, fatte di plusvalenze virtuali, finanze creative e bilanci pazzi. Quegli anni sono finiti e finiti sono i protagonisti di quel periodo.
Gli Agnelli sono rimasti nel nome ma ormai non ci son più, la Juve è più una Holding, l'unica che da qualche anno ha iniziato un tipo di gestione lungimirante e competitivo. Tanzi e Cragnotti son finiti male, facendo del male; Cecchi Gori ormai ex imprenditore, è un po' ex in tutto; anche la Roma non è più dei Sensi e le milanesi son finite in Asia in mano ai cinesi.



Serie A2

Il calcio malato con cui son cresciuto, quello che spendeva e si indebitava fino a gioco forza far impazzire i bilanci, non esiste più. O meglio esiste, ma la Serie A lo guarda da spettatore, non ha né forza economica, né attrattiva per emulare i giganti stranieri. Gli affari di questa estate non fanno testo. Il giocattolo è passato di mano. L'ultimo dei proprietari del mio calcio anni 90 a capitolare è stato Silvio Berlusconi, l'uomo che più di tutti ha accelerato il cambiamento del calcio italiano, forzando i grandi investimenti, acquistando campioni con ingaggi miliardari, spingendo per la deriva verso le tv. Che lo sia ami, o lo si odi, Berlusconi ha profondamente cambiato il calcio italiano, acquistando grandi campioni e costruendo una squadra a tratti imbattibile. Dall'altro lato ha dato il via a una lunga parabola che ha visto dei picchi di crescita, ma che sta ora conoscendo un declino inesorabile. Il calcio voluto da Silvio Berlusconi è fallito. In fondo tutto questo non è stata che il simbolo di un intero Paese, che negli anni 90 cercava di guardare da un'altra parte mentre tutto accadeva. Una grande metafora d'Italia e dei suoi uomini "migliori". Un po' come quegli imprenditori che investono, spendendo miliardi, che sfruttano il momento, cavalcano l'onda ma poi sono incapaci di affrontare le nuove sfide. 

La Parabola di Silvio



La parabola che ha preso il via nei "meravigliosi" anni '80, gli anni del campionato più bello del mondo e che ha conosciuto l'apice nei ruggenti anni '90, è esplosa in tutta la sua inconsistenza negli anni 2000. Un'epoca di spese folli e di grandi successi sportivi. Berlusconi ha utilizzato il Milan per costruire la sua immagine, lo sport che ci riesce a far smuovere dal torpore quotidiano non poteva che essere la chiave per entrare nei cuori e nelle teste di milioni d'Italiani. Ora è tutto finito, anni di successi sportivi non possono però far passare in secondo piano quello che, se guardato da un punto di vista imprenditoriale (quello che Berlusconi si è sempre vantato di essere) un fallimento nel lungo periodo. Perché sarà brutale dirlo, il giocattolo Milan gli è scoppiato tra le mani, se nel momento delle grandi spese, quando far valere la forza economica era l'unica cosa che spostava gli equilibri, era stato forte, quando poi il gioco è diventato più grande e difficile, non è riuscito a reggere. In decenni di gestione non è riuscito a costruire nulla che potesse dare una solidità extra sportiva alla squadra e il confronto con le grandi del calcio europeo è impietoso. Nessuno stadio di proprietà, diritti all'estero inesistenti e una macchina organizzativa e di merchandising imparagonabili a grandi marchi come Manchester United e Real Madrid, capaci di fatturare indipendentemente dai risultati sportivi.
La limitatezza della società si è vista nella scelta dei dirigenti, gli stessi in trent'anni di gestione, poi sostituiti dai figli. Una società arcaica esplosa in una grande bolla di sapone.

Fine della storia


Un po' come Mediaset/Fininvest e l'impero delle tv, ormai fuori da internet e ai margini delle payperview, privo di alcun profilo internazionale. Frutto dello sfruttamento di una posizione dominante in anni di predominanza politica. Milan e Fininvest dallo stesso destino, nel declino inesorabile di Silvio Berlusconi, fallimenti politici e sportivi segno di quanto la festa sia realmente finita.

mercoledì 10 agosto 2016

Quello di cui è meglio non scrivere

Ci sono mondi che restano invisibili, su cui non si scrive perché disturbano. Realtà che passano tra un titolo e l'altro, un filmato di qualche minuto e un servizio di poco conto, perché infastidiscono e non fanno bene al clima vacanziero.

Ci sono mondi distanti, così distanti che non hanno nulla a che fare con i chilometri e le distanze reali. Sono così distanti da essere così invisibili pure se vicinissimi a noi.

Il clima torrido dell'estate non consiglia di affrontarli, per non perdere attenzione, per non perdere allegria, perché non serve a nulla ora che la strumentalizzazione è in vacanza.

L'Olimpiade delle favelas

 

C'è un Brasile oltre il Brasile olimpico che affonda ogni giorno tra povertà, corruzione e favelas. Un Paese che vive tante differenze e divisioni, che con la crescita economica sono ormai spaccature. Un Paese che non si vede e che non è mostrato durante questi giorni. Le favelas di Rio de Janeiro, come le banlieue parigine, sono un crogiuolo di povertà, focolai pericolosi dove mancava solo l'infiltrazione dell'Isis per accendere ancora di più quelle tradizionali terre di nessuno, da sempre territorio di narcos. Si parla di BrasIslam con più di sessanta poliziotti uccisi in favela prima delle Olimpiadi e con ogni giorno morti ammazzati e desaparecidos. Un Paese in guerra urbana con la polizia che uccide in media sei persone.
Una statistica citata da Paolo Manzo su Panorama è impressionante:
Negli ultimi tre anni con 172mila omicidi il Brasile ha superato tutti i morti ammazzati di 12 paesi come Iraq, Sudan, Afghanistan, Colombia, Congo, Sri Lanka, India, Somalia, Nepal, Kashmir, Pakistan ed Israele, dove i conflitti sono "di casa", senza contare che tra le cinquanta città più violente al mondo 21 sono verde-oro.
A governare una delle città più grandi al mondo è come sempre la droga, con i narcos che la fanno da padrone nelle favelas, abitate da oltre quattro milioni persone costretti a vivere  senza fognature, in ostaggio di uno stato assente o complice delle gang. Un'enorme bacino di manovalanza in cui i  giovani crescono tra malattie come la sifilide, tubercolosi, Aids, tifo e lebbra e dove, chiunque per un pezzo di crack può essere disposto anche a uccidere.

Quella delle favelas è la Rio che i turisti non vedranno, una città in cui i "meninos de rua" (i bambini di strada delle baraccopoli) sono spariti da Copacabana e chissà dove sono finiti.


Se la situazione in Brasile oscilla tra il drammatico e il paradossale, in Siria si fa peggio.

Siria strage infinita

 


Aleppo è sotto assedio da tempo e i due milioni di abitanti che abitano la città nel Nord della Siria sono prigionieri di una situazione che sta precipitando e sta diventando una catastrofe umanitaria. Le  Nazioni Unite hanno chiesto alle parti una tregua umanitaria e chiedono l'accesso immediato alla città per soccorrere i civili. Sono due settimane senza sosta in cui i combattimenti tra ribelli dell'opposizione e le forze del regime dividono la città. Due milioni di persone in città vivono nella paura di rimanere sotto assedio, paura dovuta alle strategie di assedio dei gruppi in lotta, che nel momento in cui occupano arterie di comunicazione impediscono l'accesso di rifornimenti ai civili che restano intrappolati
Da una nota dell'Onu si legge una forte accusa a tutte le parti in causa.

Quando vengono utilizzate per privare intenzionalmente persone di cibo e altri beni essenziali per la loro sopravvivenza, le tattiche di assedio costituiscono un crimine di guerra
Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, circa tremila soldati e miliziani sono stati schierati da Assad e dall’organizzazione sciita libanese Hezbollah per dare il via a una reazione e riconquistare le posizioni perse negli ultimi giorni in città.
Dalla fine di luglio ad Aleppo sono morti almeno 130 civili, la rete idrica e diversi ospedali sono stati gravemente danneggiati dai bombardamenti ed è stata anche interrotta la strada usata dalle Nazioni Unite per portare aiuti umanitari ai residenti che si trovano nella parte occidentale della città,  provocando l’isolamento dei civili.
In Siria si sopravvive, si combatte contro Assad, si combatte contro i ribelli, si combatte contro Daesh, si combatte contro tutto e contro niente. Si cerca di sopravvivere.

Yemen in silenzio 

 

L'interesse occidentale nella regione araba si misura con il rumore dei media sulla guerra in Yemen, Paese un tempo culla della cultura pre islamica, con la raffinatacapitale Sana’a, da Mille e una notte. Oggi è teatro di uno scontro da cui non si vede luce, dopo che con le primavere arabe, migliaia di giovani erano scesi in strada per chiedere democrazia e diritti. A quelle proteste laiche e progressiste  fece seguito il tentativo di colpo di Stato dei ribelli Houthi, sciiti sostenuti dall’Iran, e la conseguente dura risposta militare dell’instabile governo sunnita di Abd Rabbo Mansour Hadi, sostenuto attivamente dall'Arabia Saudita che ha voluto mantenere il controlo del Paese iniziando una dura guerra. Lo Yemen occupa una posizione geograficamente strategica in quanto dallo stretto di Bab el Mandeb, collegamento strategico tra mar Mediterraneo e Oceano Indiano, transitano la maggior parte delle petroliere dal Golfo Persico. Importante per l'Arabia Saudita e per gli Stati Uniti che riforniscono Riyad con miliardi di dollari in armamenti, così come l'Italia come riporta la Rete Italiana per il Disarmo.
In Yemen si combatte una guerra invisibile sul sangue dei dei civili yemeniti ,nella lotta tra  gruppi sunniti e sciiti e che va inquadrato nel quadro di annosi conflitti tribali per il controllo del territorio, che negli ultimi anni sono riesplosi anche a causa del ruolo di potenze come Arabia Saudita, Iran, Qatar e Emirati, dopo trentatre anni di potere del generale Sales che era riuscito a tenere l'ordine. La situazione è drammatica, con la città di Aden terreno minato, sottoposta ad attacchi dell’Isis e di gruppi legati ad Al Qaeda. Le cifre sono spaventose con settemila morti e undicimila feriti, una devastante guerra che sta producendo miseria, carestie, fame e immensi danni al patrimonio culturale yemenita con incalcolabili danni al patrimonio archeologico.

Tante realtà di cui non si parla o che sono fatte di omissioni tra uno spazio e l'altro, perché è meglio non urtare la suscettibilità che informare su qualcosa che è bene tenere sotto silenzio.

lunedì 6 giugno 2016

La politica morta che vive in funzione delle elezioni e per le elezioni



Il periodo delle elezioni amministrative è sempre un momento particolare: città e comuni che si agitano per la corsa alle preferenze e alla ribalta comunale, con persone da sempre distanti alla politica e a qualsiasi interesse generale, che si affannano per convicere e convincersi, cercando voti e preferenze, con una faccia tosta e pelo sullo stomaco senza eguali.



Queste elezioni amministrative non sono state da meno. 
Ho sempre considerato la corsa alle elezioni locali come un qualcosa di distante alla concezione generale di politica, lontana dalle idee e dalle ideologie dei partiti e più referente ai singoli candidati.
In realtà, devo correggere questa mia concezione, infatti, lo specchio dell'Italia e nello specifico, della politica in Italia, sono proprio le elezioni locali, l'attaccamento al singolo candidato, indipendentemente dalle sue opinioni politiche e dal programma inconsistente. La differenza è che nelle politiche il referente ha un livello superiore di collegamento, l'interesse non è legato direttamente sul territorio, ma a un piano più alto e quindi più rarefatto, ma la concezione è la stessa sebbene a livelli diversi.
Se è l'interesse a muovere le cose e non l'utopica vocazione a gestire in maniera equilibrata la cosa pubblica, guidata da una visione comune, allora si spiega lo stato attuale dell'Italia. Se i più furbi e disillusi mi danno dell'illuso, perché considerano in realtà anche quando c'erano i presunti ideali a farla da padrone, le cose funzionavano sempre allo stesso modo, allora non faranno che dare forza a questa tesi (mi scuso invece se la considererete abbastanza banale e ovvia).



Vincere e vinceremo 


È scontato considerare il fine ultimo di quello che ancora ci affanniamo a considerare politica, la ricerca della vittoria delle elezioni, vincere per vincere, a qualsiasi costo con qualsiasi mezzo. Molti individui a livello locale sono elogiati con la definizione di essere "delle strabilianti macchine politiche", perché capaci di vincere le elezioni, racimolare sempre grandi quantità di voti e restare in piedi, in qualsiasi modo. In realtà, questa mi sembra più strategia "alla Underwood" di House of cards, con magheggi, trame dietro alle quinte, tradimenti e doppio gioco, per fregare qualche alleato ingenuo  e far vincere qualcun altro che può assicurare più voti e un miglior tornaconto.

È l'accezione di "macchina politica" a livello locale, che poi in continue proiezioni  si riflette a livello nazionale.

Ci si dimentica che il fine sarebbe governare e magari mantenere qualche promessa fatta durante la campagna elettorale, invece si pensa già alle prossime elezioni.
Questa finta politica ha come unico pensiero, quello esclusivo della riproduzione di se stessa, elezioni dopo elezioni, chiunque sia l'alleato, indipendentemente dalle idee, serve solo vincere.

 

Esperimento locale, anche a Villaricca il Partito della Nazione



Una esperienza diretta è quella del mio Comune, Villaricca, un piccolo Paese in provincia di Napoli con oltre 30mila abitanti e politicamente dominato negli anni dalla figura di Raffaele Topo, deus ex macchina della politica del Paese e figura rilevante del Pd napoletano e campano (è consigliere con delega alla sanità). In questo comune, con l'eccezione del Pd nelle elezioni amministrative sono spariti tutti i simboli di partiti, mentre sono sorte solo liste civiche. La strategia è presumibilmente quella di creare una maggioranza fluida mascherando gli apparentamenti negli schieramenti. I due maggiori candidati, espressione di fazioni del Pd, si sono apparentati con altre liste civiche, creando dei mini partiti della nazione, con esponenti storici delle fazioni avverse.
Nello specifico, nella coalizione di Maria Rosaria Punzo, divenuta prima donna Sindaco di Villaricca al primo turno, si sono accalcati candidati di tutte le estrazioni politiche, sia di destra che di centrosinistra. Solo 5 anni fa, gli stessi personaggi che hanno ora corso a braccetto per la vittoria comunale, si azzannavano considerandosi reciprocamente il male assoluto.
Ma i buoni uffici e la vista lunga di quella "macchina politica" (vd sopra) che è Topo, hanno orchestrato questo scenario per poter garantire ancora una vittoria. Indipendentemente dalla coalizione che si è andata a creare,  conta vincere. Perché le idee sono decisive, ma fino a un certo punto, perché conta soprattutto quanti voti si è capace di portare. Solo i prossimi cinque anni sapranno dirci che cambiamento porterà la Punzo, trainata dallo slogan (#Orasipuò) e se una maggioranza così differenziata potrà essere capace di governare insieme e non causare immobilismo.
Villaricca è specchio dello scenario nazionale, quel "Partito della nazione" che ha cancellato qualsiasi differenza formale tra le forze politiche. 

A livello nazionale sembra il solito discorso, quello che si fa alla fine di ogni tornata elettorale, quando ci si trova a fare la veglia funebre alla Repubblica, uccisa da tante parole vuote e dagli stessi atavici problemi.

Queste elezioni e i risultati hanno mostrato alcuni dati inequivocabili:

1)Disaffezione dei cittadini alla politica

 

L'affluenza in tutte le grandi città è in forte calo (tranne Roma), questo conferma una stanchezza e una disaffezione dei cittadini alla politica che nemmeno i partiti "antagonisti" e le liste nate dalla protesta riescono a coinvolgere.

2) La fine dei partiti 4.0

 













Gran parte delle città hanno visto i candidati presentarsi in miriadi di liste civiche. Partiti che fino a pochi anni fa dominavano le elezioni a livello locale sono del tutto spariti e hanno perso. La poca affluenza però dimostra che oltre alle parole e alle mancate promesse, nemmeno le liste civiche riescono a scaldare il cuore degli elettori. Se il fedelissimo di un tempo, anche scontento, considerando impossibile l'astensione, avrebbe votato il simbolo senza candidato, oggi l'idea di partito, che sia quello tradizionale o la transitoria lista civica trainata dal candidato, non riesce a mascherare il pensiero di buona parte degli elettori che li vede come esclusivi contenitori di voti e portatori di interessi particolari e nulla più.

3) La Leopolda resta a casa


Il Pd esce con le ossa rotte da questa prima tornata, soprattutto nelle grandi città. Dimostrazione che il renzismo a livello locale non attecchisce perché sembra non avere lo spessore politico tale da legare i candidati al territori. 

4) I Cinquestelle

 

 

L'affermazione della Raggi a Roma dimostra tanto: i cinquestelle hanno conquistato uno zoccolo duro di elettorato che rimane costante e che poi viene aumentato a seconda dei contesti. Roma veniva dallo scatafascio Alemanno (che in pochi ricordano come periodo che ha dato vita a Mafia Capitale) e dalla trappola PD - Marino, quindi era facile aspettarsi l'affermazione di un voto alternativo, che è troppo semplicistico bollare come di protesta. La politica (sedicente) "di proposta" in questi anni di governo a Roma ha portato solo grandi danni alla città. I cinquestelle è giusto che abbiano l'occasione di dimostrare le proposte e il loro modo di governare, sempre cche al ballottaggio il Pd non faccia l'exploit. Se Renzi a livello locale non va, i Cinquestelle sono l'inverso.

5) La destra che non c'è


Tutti sottolineano che la divisione a destra ha causato la sconfitta annunciata. In realtà quella divisione è frutto di inconsistenza di quei personaggi che ormai hanno disilluso anche i loro elettori. Berlusconi è ormai finito politicamente, la Meloni non ha alcun tipo di caratura per poter sperare di fare da alternativa e Salvini ha visto fallire il suo progetto nazionale.  La sua Lega si è trasformata in un movimento/partito non più di estrazione localistica e ha pagato nei risultati molto deludenti di questa tornata. Il "Le Pen" in salsa italiana (avariata) cosa si inventerà per rinnovare ancora una volta i suoi slogan demagogici e pericolosi? I critici a oltranza dei cinquestelle dovrebbero ringraziare la Raggi, perché senza la sua affermazione la Meloni poteva approfittarne per conquistare la Capitale.

La lunga strada verso il referendum

Renzi in odore di debacle, si è già prima delle elezioni affannato a sottolineare che il voto locale non sarebbe stato un voto al Governo e ha poi forzato il significato del referendum di ottobre indicandolo come decisivo per suo esecutivo.

Un discorso pericoloso perché dimostra ancora di più quanto un politico, sorto da un'elezione locale, non si importi molto dell voto locale e che con le sue parole,snatura un referendum fondamentale come quello di ottobre. Come al solito il personalismo fatto di slogan, rischia di creare ancora più danni al nostro Paese, non favorisce un sano dibattito politico e strumentalizza per l'ennesima volta il referendum costituzionale che intacca inesorabilmente l'ordine costituzionale dell'Italia, trasformandolo in un plebiscito ad personam.

L'ennesimo personalismo dopo il ventennio berlusconiano di cui l'Italia non aveva bisogno 

mercoledì 1 giugno 2016

#Almaviva storia di una crisi perpetua e certificata

L'esito delle trattative di Almaviva tanto decantato dai media scongiura gli esuberi nel breve periodo, ma non risolve alcun problema, stringendo in una morsa ancora più stretta i lavoratori nel coro trionfale unanime di governo e sindacati.

Almaviva: trovato l'accordo, salvi i tremila lavoratori. Tutti gli esuberi scongiurati.

Abbiamo salvato i lavoratori Almaviva. L'ennesima dimostrazione che il Governo mantiene le promesse.

Dev'essere davvero difficile svegliarsi dopo una giornata difficile di protesta con titoli del genere e il trionfalismo di Renzi.





Più o meno con quella faccia si saranno alzati tutti i lavoratori almaviviani quando hanno letto dell'accordo e dei toni trionfanti di tutti i media nazionali che commentavano la salvezza dei lavoratori. 
Foto di sindacalisti trionfanti e tg nazionali annunciavano il salvataggio dei lavoratori.

Nessun esubero in Almaviva e un plauso al lavoro di viceministro Bellanova

Tutti soddisfatti.

Si festeggiava anche tra i lavoratori tra caviale e champagne per tutti.

Dopo un po' che la sveglia inizia a rendersi più chiara e si inizia a capire bene quello che è successo, si analizza l'accordo firmato e controfirmato dalle sigle sindacali e non puoi non ricordarti di quando la disillusione di quel lavoratore arrabbiato diceva: 
Vedrai questa notte sarà il momento giusto, saremo andati tutti via e loro firmeranno. Firmeranno qualsiasi cosa, ci venderanno e la faranno passare per una vittoria.




Con il senno di poi non gli si può dare torto. Questa firma rappresenta un gioco a somma positiva per tutti: il Governo ha impiegato due ore per trasformare il risultato in un grande spot elettorale, perché #MatteoRisponde #DalleParoleAiFatti

L'azienda ha ottenuto tutto quello che voleva: certificazione scritta della crisi e degli esuberi sui tre centri, copertura della solidarietà solo sui tre centri, cassa integrazione straordinaria per 12 mesi, formazione pagata dallo stato, maggiore flessibilità nella gestione degli istituti, ulteriore potere ricattatorio nei confronti dei lavoratori in occasione del periodo caldo estivo, tutto in vista della grande fuga che è già in preparazione.

I sindacati hanno salvato i posti di lavoro, diranno: non potevamo assumerci la responsabilità di mettere tremila persone per strada, avevamo l'obiettivo di assicurare la continuità tra i vari ammortizzatori, abbiamo ottenuto dei tavoli ministeriali per risolvere le criticità del settore, in diciotto mesi il Governo ha il tempo per risollevare il settore.

Tutti contenti e soddisfatti.

E i lavoratori sono salvi?

 

Gli esuberi certificati che (per ora) si sono visti scongiurare il licenziamento si trovano davanti un accordo che sostanzialmente avevano bocciato nelle votazioni di tre settimane fa. Infatti, dopo il primo incontro al Mise come già scritto qui, si doveva decidere su un accordo che prevedeva proprio queste condizioni: sei mesi di solidarietà, 12 mesi di Cassa integrazione in deroga e altre belle condizioni poste a guarnizione di questa torta poco invitante. 

La differenza sostanziale, quella che i sindacati sottolineano come grande vittoria è la continuità degli ammortizzatori, senza necessità di avviare ancora una procedura di mobilità.

In sostanza però l'accordo non risolve nulla, non salva nessuno, ma per l'ennesima volta rimanda.
I lavoratori continueranno in quello stato di invivibile precarietà fatta di flessibilità e terrorismo aziendale ad horas, con prospettive lavorative pari a zero e nella speranza che i tavoli governativi riescano a salvare un settore in crisi irreversibile.
Si parla di irreversibilità, perché fino a quando le leggi attuali non si fanno rispettare, come l'articolo 24 bis che prevede l'obbligo per gli operatori di permettere una scelta da parte dell'utente, della provenienza del assistente con cui parlare, fino a quando non verranno fatte rispettare quelle leggi che puniscono le aste al massimo ribasso e fino a quando non verranno coinvolti nella discussione quegli operatori commitenti che continuano a inviare chiamate all'estero, preferendo il lavoro malpagato e per nulla garantito e protetto del povero di turno ai margini del "mondo che conta", non si troverà una soluzione seria al problema. 

Rimando


Si continua a rimandare perché il momento è delicato, c'è la campagna elettorale da difendere. Gli slogan fanno bene all'immagine di un Governo che ha snobbato per mesi la protesta dei lavoratori e che l'ha relegata a questione secondaria, con il vice ministro sorpreso del no dei lavoratori al primo accordo e che non ha fatto che riproporre per tutta la trattativa, la stessa identica proposta.

A questi tavoli di confronti, si dovrebbero affidare i lavoratori e sperare che in  6 mesi più dodici di cds e cigs, qualcosa possa cambiare, oltre ogni pressione sempre più forte, umiliazione e terrorismo psicologico,
Perché se qualcosa non cambierà, la problematica sarà sempre la stessa, con la differenza che gli esuberi saranno certificati e i tre centri oggettivamente in crisi e con tagli inevitabili.
Diciotto mesi molto distanti, anche troppo, ma sufficienti  per far dimenticare i titoli, le foto e i post trionfalistici.
In quel momento la strategia tanto temuta verrà a galla.

Ma la memoria di tutti avrà dimenticato anche questo. Saremo pronti per l'ennesimo giro sulla giostra.
Pronti per l'ennesimo slogan e per l'ennesima campagna elettorale, mentre il lavoro è ancora in fuga verso l'estero e il Titanic dei lavoratori che affonda.

Sperando che il grido #AlmavivaNonSiTocca sia più forte dello sconforto e della disillusione.


lunedì 30 maggio 2016

#Almaviva di nuovo al #Mise, sarà il giorno decisivo?

In partenza, ancora una volta, centinaia di giovani lavoratori diretti verso Roma per difendere un diritto.  Una Repubblica che ha nel primo articolo della Costituzione, il lavoro tra i diritti fondanti, minacciala stabilità della vita di persone che si sono già sentite tradite per la marea di illusioni e aspettative non mantenute e che ora si vedono infranta anche l'ultima promessa.
I tremila lavoratori di Almaviva che sono in pericolo, hanno un contratto a tempo indeterminato, che tra qualche giorno potrebbe essere carta straccia.
Il tempo indeterminato è finché dura.
Questi lavoratori presidieranno oggi il Mise, il Ministero dello Sviluppo Economico per urlare il proprio diritto a esistere.
Le persone lottano non per mantenere privilegi, non per difendere a tutti i costi il più bel posto di lavoro che ci sia, ma perché è la loro unica opportunità. Uno stipendio vicino alla sussistenza messo ancor più a rischio e in discussione da logiche aziendali legate a riduzioni di profitto.
Oggi al Mise ci sarà l'ultimo incontro tra azienda, sindacati e ministero, quello che dovrebbe decisivo per trovare unsa soluzione alla crisi Almaviva. Fino a ora le proposte governative si sono fermate a quelle che bocciate dai lavoratori e che non garantivano continuità tra gli ammortizzatori sociali proposti. Un continuo di instabilità per i lavoratori, che sono stanchi di continuare a vivere sul filo. Dall'altro lato ci sono i vertici aziendali fermi nelle loro posizioni.
Sullo sfondo un mercato, quello dei call center italiani, per tanti giovani unica occasione lavorativa, perchè lasciati per strada in un contesto prima drogato da incentivi statali e oa abbandonato, perso tra delocalizzazioni selvagge, aste al massimo ribasso e leggi non rispettate per salvaguardare l'occupazione in contesti martoriati.
Oggi centinaia di lavoratori saranno fuori al Mise per urlare il proprio diritto a esistere. Esistere non per concessione padronale o per gentile elargimento di ammortizzatori statali, ennesima droga di mercato capace di dare dipendenza agli imprenditori, incapaci di rischiare ma trasformatisi in "prenditori" di fondi pubblici e pronti a scappare in Albania o Romania alle prime avvisaglie o alla scadenza dei fondi previsti da miopi leggi statali.
Oggi quelle centinaia di lavoratori saranno lì a protestare a oltranza, nella speranza che non ci sia l'ennesimo inciucio tra azienda e Stato, con la silente complicità dei sindacati.
Perché qualsiasi ammortizzatore, senza la presa in carico di misure strutturali che contrastino realmente la fuga del lavoro in Italia e che responsabilizzino davvero i committenti, una delle cause principali della crisi.
Che ognuno si assuma le proprie responsabilità senza addossare tutta la crisi sulle spalle già martoriate dei lavoratori.
In bocca al lupo a tutti.
#AlmavivaNonSiTocca

giovedì 28 aprile 2016

Almaviva e l'accordo che non risolve nulla, ma rimanda. Su cosa dovranno votare i lavoratori?


Referendum sembra la parola magica in questo periodo.
Con questo post, non voglio parlarvi di trivelle e nemmeno di quorum. Oggi tratto ancora della problematica Almaviva e della procedura di mobilità di cui vi ho già parlato in alcuni post precedenti.

LEGGI ANCHE: Solo esuberi e non più risorse: Almaviva, l'estenuante perdita di valore del lavoro in Italia



Mi chiederete cosa c'entra il referendum se vi parlo di Almaviva. In realtà il referendum c'entra perché le riunioni al Mise tra Governo, azienda e sindacati hanno trovato uno sbocco e una sorta di accordo, proposto da Almaviva e che i sindacati hanno deciso di sottoporre al voto dei lavoratori.
Sì, dopo anni di decisioni tra pochi, in questo momento complicato si è deciso di chiedere l'opinione dei lavoratori, perché i giochi in ballo sono troppo importanti e in un periodo di forte sfiducia anche nei confronti delle rappresentanze sindacali, si richiede la valutazione dei lavoratori, così anche per lavarsi la coscienza.

Perché è normale, i grandi numeri aiutano a mescolare le carte, orientare le decisioni e ottenere quello che si vuole al minor costo.

Ci si muove un atmosfera alquanto caotica sia a livello di ufficialità, perché oltre a un comunicato dei sindacati, una proposta ufficiale e certificata dell'azienda non c'è, salvo la minaccia di procedere con le procedure di mobilità nel momento in cui non ci sia un sì all'accordo entro il 4 maggio.

Su cosa dovranno rispondere i lavoratori?


La proposta aziendale è una non soluzione:
Nelle precendenti puntate della vertenza Almaviva, quando l'azienda dichiarava le perdite economiche e mostrava i dati che giustificavano i 3mila esuberi necessari per rilanciare la propria attività, l'amministratore delegato si mostrava indisponibile a qualsiasi soluzione ponte, incapace di rilanciare il mercato e fa ripredere competitività a un settore, quello dei call center inbound italiani, dilaniato da appalti al massimo ribasso e delocalizzazioni.
Quindi nessuna estensione del contratto di solidarietà e no a qualsiasi ammortizzatore che non servisse a ristrutturare davvero il mercato.

Negli incontri col Governo, si è invece mostrato come in questi mesi, la problematica Almaviva sia stata del tutto ignorata, perché il viceministro non ha saputo fare altro che promettere impegni concreti, dare rassicurazioni e concedere i soliti aiuti economici. Questi aiuti si sostanziano nella concessione in deroga della solidarietà con percentuali del 45% nei centri di Palermo, Roma e Napoli spalmata in orizzontale e in verticale per i part time a 5 e 6 ore e i full time (per i part time 4 ore la solidarietà continuerà a essere verticale).
Le condizioni economiche per i lavoratori ne risentiranno ancora di più, visto che anche i rimborsi della solidarietà verranno considerati bimestralmente ed rimborsati dall'azienda solo nel momento in cui l'Inps sia puntuale nel restituire le anticipazioni dell'azienda, altrimenti l'azienda rimborserà al 25%.

In sostanza un accordo che non risolve nulla, ma rimanda tutto a novembre, nella speranza che il Governo faccia il miracolo e che si trovi una soluzione alla perdita di competitività del settore.
A novembre poi i lavoratori saranno punto e a capo, perché nessuna garanzia è data loro dall'azienda nel momento in cui la situazione non migliori, anzi si riaccenderà la procedura di mobilità con qualche differenza.
La differenza è che per i lavoratori sarà impossibile procedere con un'ulteriore vertenza e soprattutto sarà vicinissimo quel 2017, anno in cui la legge Fornero ha stabilito come inizio del periodo di cambiamento della retribuzione della mobilità, facendo comparire la Naspi che tra le varie modifica si sostanzia in una retribuzione più bassa e di minor durata del periodo di disoccupazioni.

Tante questioni non tornano e fanno pensare che possano esserci accordi sottaciuti che abbiano indotto l'azienda a perseguire questa linea attendista, quando per mesi ha mostrato sempre l'indisponibilità.

Intanto, lavoratori si trovano a dover decidere davanti al ricatto aziendale, tra un sì che accetta tali condizioni peggiorative e che non porta alcuna soluzione, se non la speranza in un miracolo del Governo a novembre, altrimenti mobilità sicura, senza vertenze e con una Naspi più bassa. Oppure,dire no ora e quindi forzare l'azienda a scoprire le sue carte, o continuando la procedura di mobilità con l'esposizione a subire vertenze che possono essere costose e a forzare il governo a trovare una soluzione.

No quorum


Il quorum non esiste e i lavoratori dovranno volenti o nolenti prendere una decisione, sullo sfondo di tanta confusione per i tremila che si troveranno a dover decidere del proprio futuro in pochi giorni.

È facile in questi casi strumentalizzare le opinioni e le paure di persone, soprattutto in assenza di qualsiasi aspettativa positiva e dinanzi ai tanti interrogativi sul futuro e sulla crisi aziendale che appare tanto irrimediabile e decantata, soprattutto nelle parole di chi minaccia fuoco e fiamme, ma sembra soltanto intenzionato a raccogliere il massimo possibile dalla situazione.

lunedì 18 aprile 2016

Cosa significa "Io non voto" al referendum

Va bene, non siete andati a votare, nonostante l'invito che avevo caldeggiato in questa pagina, avete scelto di non scegliere e il referendum non ha ottenuto il quorum. Si dirà, quelli che spingevano sul no hanno detto che, non andare a votare era già una decisione contro il quesito del referendum, per boicottare il quorum. 

In realtà vorrei capire nello specifico perché si è deciso di non votare.
Molti hanno detto che era un referendum inutile, che era semplicemente una questione politica contro il Governo e che era contro la politica energitica italiana, in quanto quel petrolio serve al nostro sviluppo.
Molti l'hanno intesa come un voto pro o contro Renzi, cosa che ha fatto comodo al primo ministro per oscurare la questione oggetto di quesito.

Ora che i giochi sono chiusi e che ormai il gioco voto/non voto rappresenta solo un pallido ricordo, vi dirò che non andare a votare ha significato far passare il messaggio che determinate personalità controllano ancora un consenso alto e che possono influire, non dico sull'attivista o il membro di un partito, ma sulla persona comune che non ha legami particolari con quel gruppo o associazione.

Perché buona parte di chi si è astenuto, non si è nemmeno informato su cosa si votava, perché i media main stream quelli che veicolano l'opinione pubblica e che sono controllate da quelle due/tre famiglie non ne hanno parlato o se ne hanno parlato, lo hanno fatto male. Oppure, perché il discorso era troppo complicato e la pigrizia di tendenza ha fatto sì che molti si rifiutassero di interessarsi, presi da quell'apatia per la politica che porta all'astensione, anche paradossalmente per uno strumento che è il massimo della partecipazione popolare come il Referendum.

Allora sinteticamente non siete andati a votare, perché vi hanno detto che era inutile, che era anzi dannoso perché il petrolio  e il gas all'Italia serve.
In realtà il voto non era rivolto al cambio di politica energetica dell'Italia (magari...), ma riguardava nello specifico la durata delle concessioni di estrazione del petrolio nei giacimenti in essere, che avevano una scadenza varia nella forbice 2017 e 2034 e che la legge di stabilità di fine 2015 aveva portato fino a esaurimento utilità della compagnia che si occupa dell'estrazione.

In sostanza la legge di stabilità ha regalato quel giacimento alla compagnia petrolifera senza nessuna scadenza, a condizioni fiscali favorevoli e con il pagamento di royalties allo Stato e alle Regioni tra le più basse al mondo. 
Quali sono queste condizioni favorevoli? 
Per poter estrarre idrocarburi le società petrolifere devono pagare  royalties legate all’andamento di mercato: se il prezzo del petrolio si abbassa, cala anche il loro gettito. Se confrontiamo le royalties italiane con quelle, per esempio, della Croazia, vediamo che i petrolieri in territorio croato pagano quasi cinque volte di più. In Italia per le estrazioni in mare dal 2012 ci sono due diverse aliquote: 10% per il gas e 7% sul petrolio. Solo come termine di paragone per il petrolio l'aliquota in Guinea è del 25%, mentre addirittura dell'80% in Norvegia.
I favori non terminano qui: ci sono le franchigie.
Le società petrolifere non versano nulla all'Italia  se producono meno di 20mila tonnellate di petrolio su terra e meno di 50mila in mare. La vendita però è a prezzo pieno e se si superano le soglie, scatta un’ulteriore detrazione di circa 40 euro a tonnellata. In questo modo il 7% delle royalties viene pagato solo dopo le prime 50mila tonnellate di greggio estratto e neppure per intero.
Ditemi voi se qualcuno che ha una concessione illimitata nel tempo ha interesse ad aumentare la produzione e quindi andare oltre franchigia, visto anche il calo del prezzo del petrolio e del gas.

Un vincolo che è rimasto, ma che perde  totalmente di senso è quello della demolizione degli impianti a fine concessione e il ristabilimento dell'ecosistema precedente, che con una concessione pressoché illimitata non vedremo in tempi certi.

Tutto questo lo si poteva evitare con il voto di domenica 17, ma non siete voluti andare a votare.

Avete scelto di non informarvi e di non scegliere.
Avete scelto di far decidere il Governo e le lobby petrolifere.


Come se in questo Paese non decidano già tutto loro.
In questi giorni è andato in scena uno spettacolo indegno per una democrazia che si definisce evoluta. Figure istituzionali che caldeggiano il non voto come un diritto costituzionale, il Presidente della Repubblica che va a votare a tg nazionali ormai andati in onda e soprattutto organi di informazioni impreparati o di parte, rendono tutto molto triste.

Una cosa in realtà non è stata detta, una cosa che presidente della Repubbica in carica e presidente emerito avrebbe dovuto dire, nel rispetto di tanti che hanno combattuto per questo diritto.

"Io non voto" non è mai una risposta.

venerdì 15 aprile 2016

Che sia Sì o sia no, dillo al referendum, domenica 17 aprile non legittimare chi ti dice di non scegliere

Questo è dedicato a chi è abituato a strumentalizzare e a utilizzare la propria figura istituzionale per finalità politiche. Un po' come quegli ex presidenti della Repubblica che invitano ad astenersi dal votare un referendum, come se non andare a votare fosse una qualità.

In realtà questi i referendum di domenica 17 aprile sono passati in sordina e come al solito strumentalizzati. La "politica" si appropria sempre di tutte le battaglie e rende ogni cosa uno scontro tra partiti.



La strumentalizzazione di un referendum avviene quando il quesito sulle "trivelle" diventa una questione politica, se far chiudere o meno dei giacimenti e far perdere lavoro a degli operai oltre che prezioso petrolio al Paese.
In realtà non è questo che si voterà domenica, il 17 infatti si voterà per abolire una norma introdotta dalla legge di stabilità che cambiava una precedente legge  e che assicurava alle compagnie petrolifere, titolari della concessione a termine, un diritto di trivellazione del giacimento fino a completo esaurimento del pozzo. In pratica, lo Stato si "espropria" dei propri diritti su risorse inalienabili e le "cede" definitivamente o quasi alle compagnie petrolifere. Un bel regalo alle lobby petrolifere non c'è dubbio e un grande smacco sia per l'equilibrio geologico delle nostre coste e dei nostri territori, sia per evitare l'ennesimo favore alle lobby del petrolio. Perché l'Italia è il Paese delle lobbny che lavorano sottotraccia e che riescono a far inserire queste norme all'interno di Leggi di stabilità molto vaste e quindi capaci di passare quasi inosservate.

domenica 10 aprile 2016

Realtà a tre dimensioni: la libertà dei capitali e del lavoro e i confini delle persone


Esistono realtà parallele che si sovrappongono, realtà antitetiche che seppure contraddittorie, coesistono sullo stesso piano. Non parlo di mondi paralleli, né di altre dimensioni e nemmeno faccio riferimento a cervellotici film o a una puntata di Lost, ma del nostro spazio/tempo e della nostra realtà. Diverse percezioni che guardano la stessa dimensione da un punto di vista diverso.
In questi giorni su tutti i mezzi d'informazione si tratta dello scandalo delle società offshore a Panama. Una realtà nota a tutti è diventato uno scoop mondiale.



I cosiddetti "Panama papers" non ci hanno detto nulla di nuovo, era risaputo che Paesi come Panama fossero paradisi fiscali. Quello che ha lasciato sorpresi è forse vedere quanto sia stato facile esportare capitali all'estero un po' per tutti. 
Nel sistema capitalista occidentale i capitali hanno libertà di movimento verso quei Paesi che offrono condizioni migliori. Con i miliardi non si è razzisti.

sabato 2 aprile 2016

Solo esuberi e non più risorse: Almaviva, l'estenuante perdita di valore del lavoro in Italia

Sono giorni difficili per il lavoro in Italia vista la messa in mobilità di circa tremila lavoratori dichiarata da +Almaviva Contact, di cui ho già qui scritto su +Contrordine , al momento della dichiarazione dello stato di mobilità e qui per la manifestazione a Napoli. 

1.670  +Dipedenti Palermo Almaviva , 918 di Roma e 400 di Napoli in pericolo che rappresentano un disastro lavorativo dalle dimensioni enormi, ma che non ha ancora una rilevanza mediatica proporzionata. 

La crisi Almaviva 


 
















Gli eventi si rincorrono negli ultimi giorni e mentre continuano i presidi e le manifestazioni, l'azienda ha dichiarato nuovamente alle sigle sindacali  che, a fronte di assenza di marginalità nei centri indicati e, anzi, con lavoro in perdita, si vede costretta a continuare il processo di "riorganizzazione", viste le difficoltà a essere competitiva sul mercato, fatto di delocalizzazioni e aste al massimo ribasso. La situazione problematica esplosa negli ultimi giorni viene da tempi lontani, già in questo blog ti scrissi della situazione dovuta alla crisi a Catania, del fatto che da circa tre anni i lavoratori Almaviva sono in contratto di solidarietà e della situazione difficile maltrattata dal mondo dell'informazione.

LEGGI ANCHE: La crisi Almaviva ai tempi delle delocalizzazioni e del Jobs act (e di Ballarò)

 

Questione di marginalità

 

Una delle parole più diffuse tra i lavoratori coinvolti dalla crisi di questi giorni è: marginalità. Se il lavoro non crea marginalità, non esiste e quindi va eliminato. Secondo i dati di Almaviva i tre centri coinvolti sono in perdita e non producono quelle percentuali di marginalità che possano rendere sostenibile l'investimento, soprattutto per la differenza tra il costo del lavoro in Italia che , dichiara l'azienda, è di circa 15 euro/l'ora con gli incentivi 2016 in confronto ai circa 3-5 euro/l'ora del lavoro nei Paesi extra UE dove i concorrenti delocalizzano.  


mercoledì 27 gennaio 2016

#SvegliaItalia è ora di essere civili, perché ci piaccia o no, è #giàfamiglia

Siamo il Paese in cui si continua a manifestare per vedersi riconosciuto un diritto, perché per essere tutti uguali bisogna avere l'approvazione e non urtare la sensibilità degli altri. Lo stesso Paese che ancora subisce un'influenza indebita dal Vaticano che organizza battaglie (silenziose o vibranti) in piazza e in Parlamento per opporsi a una legge sacrosanta, che deve semplicemente registrare la realtà anziché continuare a negarla.

Lo stesso Paese in cui un diritto riconosciuto e stabilito dalla legge come quello dell'aborto, viene costantemente messo in discussione dall'obiezione di coscienza da parte di tanti medici, che pur di far vincere le loro convinzioni ideologiche, mettono a repentaglio la vita di tante donne.

Siamo un Paese che vive un medioevo culturale che è difficile da superare. L'Italia è nel pieno di una battaglia civile, che non si può vincere semplicemente con una legge. L'ho sempre detto, non basta una legge per combattere un ritardo culturale clamoroso, però nel caso del percorso parlamentare di approvazione del Ddl Cirinnà sulle unioni civili sarebbe un passo in avanti..
Se guardassimo la storia attraverso un film o leggessimo tutto in un libro, ci scandalizzeremmo per il mancato riconoscimento di questi diritti e guarderemmo con pietà mista a indignazione per tutti quelli che, attaccati a supposte tradizioni, ancora insistono per negare diritti sacrosanti.


È incredibile come nel 2016 le unioni tra coppie di fatto o tra Lgbt non abbiano ancora un riconoscimento legale. Siamo ancora chiusi in una visione retrogada.
Ma non sorprendiamoci l'Italia è forse uno dei pochi Paesi occidentali in cui la Chiesa ha ancora il potere di influenzare l'agenda politica e di spingere verso una negazione così palese dei diritti altrui.



A scriverlo su Twitter è il  segretario del Consiglio d'Europa Thorbjorn Jagland, che sottolinea il ritardo italiano rispetto agli altri Paesi europei.
Infatti, siamo uno dei pochi Paesi a non avere ancora una legge che riconosca le unioni civili tra coppie di fatto e Lgbt, insieme a Cipro, Lituania, Lettonia, Polonia, Slovacchia, Bulgaria e Romania. 
Una compagnia che non ci fa tanto onore.

Partiamo per gradi: