sabato 2 aprile 2016

Solo esuberi e non più risorse: Almaviva, l'estenuante perdita di valore del lavoro in Italia

Sono giorni difficili per il lavoro in Italia vista la messa in mobilità di circa tremila lavoratori dichiarata da +Almaviva Contact, di cui ho già qui scritto su +Contrordine , al momento della dichiarazione dello stato di mobilità e qui per la manifestazione a Napoli. 

1.670  +Dipedenti Palermo Almaviva , 918 di Roma e 400 di Napoli in pericolo che rappresentano un disastro lavorativo dalle dimensioni enormi, ma che non ha ancora una rilevanza mediatica proporzionata. 

La crisi Almaviva 


 
















Gli eventi si rincorrono negli ultimi giorni e mentre continuano i presidi e le manifestazioni, l'azienda ha dichiarato nuovamente alle sigle sindacali  che, a fronte di assenza di marginalità nei centri indicati e, anzi, con lavoro in perdita, si vede costretta a continuare il processo di "riorganizzazione", viste le difficoltà a essere competitiva sul mercato, fatto di delocalizzazioni e aste al massimo ribasso. La situazione problematica esplosa negli ultimi giorni viene da tempi lontani, già in questo blog ti scrissi della situazione dovuta alla crisi a Catania, del fatto che da circa tre anni i lavoratori Almaviva sono in contratto di solidarietà e della situazione difficile maltrattata dal mondo dell'informazione.

LEGGI ANCHE: La crisi Almaviva ai tempi delle delocalizzazioni e del Jobs act (e di Ballarò)

 

Questione di marginalità

 

Una delle parole più diffuse tra i lavoratori coinvolti dalla crisi di questi giorni è: marginalità. Se il lavoro non crea marginalità, non esiste e quindi va eliminato. Secondo i dati di Almaviva i tre centri coinvolti sono in perdita e non producono quelle percentuali di marginalità che possano rendere sostenibile l'investimento, soprattutto per la differenza tra il costo del lavoro in Italia che , dichiara l'azienda, è di circa 15 euro/l'ora con gli incentivi 2016 in confronto ai circa 3-5 euro/l'ora del lavoro nei Paesi extra UE dove i concorrenti delocalizzano.  



Figli di call center

 


Una situazione insostenibile per l'azienda e per l'intero mercato italiano. Aggiungiamoci anche che, il lavoro nei call center in Italia è sempre stato bistrattato, considerato dai più una professione di serie b o  un'ultima strada per chi non vuole restare disoccupato. Se approfondiamo il caso e ci rendiamo conto di quanti giovani lavorino nei call center, possiamo capire che parte del mondo del lavoro in Italia si trova in cuffia perché è una delle poche opportunità di lavorare in un Paese che ha delle barriere all'entrata nel mondo del lavoro difficili da superare. Le differenze di costi tra il nostro Paese e l'estero (extra UE) dimostrano inoltre come il settore sia drogato, affossato da leggi inefficienti e mercati falsati da  dumping sociale verso i Paesi a costo del lavoro di pochi euro. 
Spesso non si fa distinzione nel lavoro dei call center: i call center outbound, per lo più settori commerciali e vendita,  generano i maggiori guadagni per le aziende, in quanto i lavoratori sono quasi sempre pagati a provvigioni con fissi irrisori e i contratti sono brevi e dalle tutele molto fragili. Poi ci sono i call center inbound, più che altro quelli di customer care che periodicamente sono nell'occhio del ciclone.

La grande truffa

Molto spesso quando ci troviamo a chiamare un call center di una qualsiasi azienda ci risponderanno dall'estero, magari dai Balcani o dall'est Europa o Nord Africa. Devi sapere, se non lo sai già, che quel lavoratore sta lavorando per un salario così infimo da essere inaccettabile anche per il più "crumiro" dei lavoratori italiani. Questo è il dumping sociale che sta mettendo in ginocchio migliaia di lavoratori italiani, traditi sia dall'azienda a cui hanno concesso di tutto negli anni e sia dallo Stato che non ha fatto nulla per evitare questa degenerazione del mercato, ma anzi ha permesso che appalti di commesse pubbliche fossero assegnati ad aziende che sfruttano tali logiche. Il lavoro ad Almaviva come a Gepin contact sta morendo non per caso, ma per un calcolo delle lobby che vogliono sfruttare le delocalizzazioni fino all'ultimo cent.

Senza diritti

Oltre alle varie manifestazioni di questi giorni che sto seguendo, un avvenimento di oggi mi ha portato a scrivere questo post. In un tardo pomeriggio di stanchezza post lavorativa, ho avuto un problema con un prodotto acquistato qualche tempo fa su un noto sito di ecommerce e ho quindi contattato l'assistenza clienti via chat. Quasi immediatamente, mi ha risposto una gentilissima ragazza dalla Croazia, Ivana K., che in pochi minuti mi ha risolto il problema con una sostituzione gratuita, come previsto tra l'altro dalle procedure efficienti dell'azienda con cui faccio spesso acquisti (e che da note inchieste giornalistiche tratta i lavoratori peggio delle bestie). Dopo averla ringraziata per la gestione, le ho chiesto da dove rispondesse, visti alcuni errori di battitura, nonostante un italiano (scritto) eccellente. Ho avuto conferma della provenienza croata dell'operatrice e ho iniziato a farle alcune domande, vista la sua disponibilità. Mi ha raccontato della sua giornata interminabile a lavoro, delle pause inesistenti e non retribuite, della paga solo su contatti con problematica risolta, che doveva terminare alle 20, ma che sicuramente avrebbe fintio di lavorare più tardi, visto che lo straordinario non era assolutamente retribuito. "Non sono così fortunata" mi ha detto. Parole che mi hanno lasciato molto amareggiato. 
Al termine della chat, non ho avuto il pensiero che forse qualcuno potrebbe avere: "Allora sono fortunato, io che lavoro in condizioni migliori rispetto a Ivana." 
Ho pensato a che vergognosi fossero i tempi in cui viviamo, dove un lavoratore vale meno di zero. Croazia, Romania, Bulgaria, Polonia e altri sono Stati membri dell'Unione Europea. L'unione federale si conferma soltanto un'area di libero scambio in cui oltre che le merci, sono liberamente svenduti anche i diritti dei lavoratori. L'illusione europea della estensione dei diritti civili come modello di crescita è fallito. 
Il prodotto è una guerra tra poveri, in cui ci sono lavoratori in crisi che si vedono "rubare" il lavoro da altri che vivono ancora peggio e che hanno ancor meno diritti.
Se i lavoratori cambiano, le aziende restano, semplicemente si spostano e guadagnano sfruttando questa guerra tra poveri che hanno creato ad hoc. 

La fede nel profitto a ogni costo

Le aziende puntano a creare marginalità, aumentare i guadagni e i fatturati, eliminando quelli che sono considerati fattori inutili e dispendiosi: i diritti dei lavoratori, che tendiamo a dare per scontato.

Una competizione impossibile che rende difficile qualsiasi risposta.

Almaviva ha dichiarato di non poter più competere in questo contesto se lo Stato italiano non farà nulla di concreto e in tempi certi per rendere più equilibrata una competizione falsata.

Perché il problema è la dignità di ogni lavoratore; il problema sono quei miseri diritti che ancora si vorrebbe mantenere; il problema è quel misero stipendio che ancora si pretende a fine mese.
Se la soluzione è delocalizzare; se il modello corretto è quello dei 3 euro/ora, degli straordinari non pagati e della vita che vale meno di zero perché rappresenta soltanto un numero in un bilancio, se questo è il modello a cui vuole giungere anche Almaviva con la sua dichiarazione d'intenti, allora le manifestazioni per il lavoro e il lavoro stesso in questo Paese che sta fallendo non hanno più senso. 

Si è solo un fattore percentile di marginalità, non più una persona e nemmeno una risorsa.

Se questa è la mission a cui ha fatto riferimento in tanti anni l'azienda e se è questo che vuole lo Stato, allora non c'è nulla da fare, è già tutto deciso. 

Se il prezzo dovranno pagarlo i lavoratori, allora Almaviva è già morta.

 Perché Almaviva è di chi lavora ogni giorno, senza mollare mai.


Ecco il video autoprodotto dei lavoratori di Almaviva contact Napoli



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